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06 Marzo 2014
Importing democracy: l’anomalia italiana
Dopo l’11 settembre, i neoconservatori americani e il loro presidente, George W. Bush, elaborarono una dottrina politica che facesse da cornice al fervente interventismo militare: gli americani avevano il diritto di difendersi dai loro nemici senza aspettare il consenso dei consessi internazionali (quali l’Onu); gli americani avevano il diritto di attaccare preventivamente quei paesi che davano ospitalità ai loro nemici; gli americani (e il mondo occidentale) non erano odiati per qualche presunta loro colpa, ma per il disastro economico e politico in cui vivevano alcuni paesi e quindi dato che la democrazia non era un dono di Dio agli americani, ma un dono di Dio all’umanità intera, gli americani avevano il diritto di portare questo dono ovunque ce ne fosse bisogno. Questa dottrina prese il suggestivo nome di “exporting democracy”. L’America che ha da sempre una bilancia commerciale in passivo – è un grande paese consumatore di merci che importa –, diventava il principale esportatore di una “merce” non propriamente facile da registrare.
Benché la “guerra al terrorismo” potesse sembrare solo una riedizione ammodernata della “guerra al comunismo” che dalla Corea al Vietnam, dal Sud America (il loro “cortile di casa”) all’Afghanistan aveva segnato quasi cinquant’anni di politica estera americana, aggiornatasi infine nella “guerra umanitaria” dell’attacco alla Jugoslavia, l’asimmetria del nemico – non un “blocco economico-politico” ma una “rete di religiosi militanti” – segnava l’asimmetria del discorso politico. Qui non era il “poliziotto del mondo” a intestarsi il diritto di intervenire, ma una sorta di George Washington universale, un liberatore del mondo.
Se i valori della libertà (diritto di proprietà, di espressione, di garanzia giuridica) erano stati quelli minacciati e conculcati dal socialismo e dal suo Stato totalitario contro il quale si ergeva l’«american way of life» – fatta di commodities, di merci e benessere, di appetitose meraviglie materiali –, adesso la questione si spostava direttamente sulla forma della decisione politica. Il terrorismo espropriava le masse dalla decisione politica, agiva in conto e per conto d’esse, e quindi occorreva dare alle masse la forma della decisione politica; il terrorismo agiva nell’ombra, e quindi occorreva portare alla luce l’associazione della decisione politica. Il nuovo discorso della politica americana – che teneva in conto il terrorismo come nemico politico, oltre che militare, e la sua forza di attrazione e fascinazione – si circoscriveva e sostanziava quindi nella forma della democrazia, il voto. Il voto era l’arma politica contro il nuovo Califfato preconizzato da al Qaeda. Le libere elezioni – universali, senza limiti di censo e di genere, una forma che l’Occidente ha impiegato più di duecento anni per raggiungere – assumevano, così è stato per l’Iraq e l’Afghanistan, l’aspetto di una linea d’ombra, di una linea di confine tra adolescenza (rissosa, sperperata, indocile e indolente) e maturità delle società e dei paesi dove l’America esportava la democrazia. La democrazia diventava the promised land, l’appetitosa meraviglia immateriale.
La torsione del discorso politico non finiva però qui. La bilancia commerciale prevedeva anche una voce “domestica”. L’amministrazione Bush varava in casa il Patriot’s Act, e in nome della lotta al terrorismo – ai possibili nemici “interni” – chiedeva ai propri cittadini di rinunciare a qualche loro libertà – alle libertà sul loro suolo, come per Guantanamo – per garantire la difesa della loro democrazia. Opporsi era unamerican. Il Big Data denunciato poi da Snowden nasceva lì [e si era “perfezionato” nell’elaborazione dei dati “esterni” – di leader politici e industriali di tutto il mondo – una volta preso l’abbrivio]. All’esportazione della democrazia politica come foriera di libertà economica, corrispondeva perciò una compressione delle libertà interne politiche in nome della democrazia economica. È lì che furono avvelenati i pozzi.
Le cose però non sono andate propriamente come la dottrina immaginava e promuoveva. Cioè, per un verso – quello domestico – la compressione delle libertà è continuata, e lo scandalo del Big Data sta lì a dimostrarlo, nonostante una fortissima opposizione civile. Abroad, all’estero, invece, non ci volle molto per rendersi conto che le cose, in Iraq e Afghanistan, prendevano una piega diversa da quanto prevedeva la dottrina politica. Tra i primi a scriverne fu Fareed Zakaria, giornalista statunitense già direttore di «Foreign Affairs» e attuale redattore di «Newsweek International», nonché collaboratore di diverse testate giornalistiche del mondo: i suoi articoli compaiono spesso anche in Italia. In The Future of Freedom: Illiberal Democracy at Home and Abroad [lo riporto in originale, perché il titolo italiano è fuorviante], Zakaria scriveva che l’esportazione della democrazia come meccanismo elettorale non garantisce affatto democrazia intesa come libertà, liberalismo e diritti umani. La sua “pistola fumante” di prova era Hamas – la situazione in Iraq e Afghanistan era già abbastanza desolante –, l’organizzazione politico-militare che nei territori in Palestina aveva un consenso elettorale “bulgaro” e nello stesso tempo aveva radicalizzato lo scontro con Israele, sovrapponendo a forme di assistenza sociale (scuole, sanità) garantite peraltro da finanziamenti di istituzioni occidentali, forme di militarizzazione, e islamizzazione, della società. Ma il suo sguardo e la sua analisi si posavano dalla Russia al Venezuela, dall’India al Pakistan: paesi in cui sono presenti processi elettorali tipici di una democrazia, ma in cui certi diritti primari non vengono riconosciuti o tutelati. Le cose perciò si complicano: ci possono essere governi democratici ma autoritari e, al contrario, ci possono essere governi autoritari ma liberali.
La domanda, che Zakaria però non fa – dando per scontato che le democrazie occidentali rimangono incontaminate in un felice e perdurante connubio tra democrazia e libertà –, ora è: gli americani, gli europei, il mondo occidentale a quale delle due categorie appartengono?
Probabilmente a condizionare il funzionamento e gli equilibri delle democrazie occidentali più della guerra al terrorismo è stata la crisi finanziaria: le élite del potere si sono ritrovate davanti all’obbligo di assumere rapidamente delle decisioni e delle iniziative “di difesa” che sconvolgevano però la vita materiali dei cittadini [oltre che costituzioni materiali e giuridiche, basti pensare al “salvataggio” delle banche] senza però la possibilità di indirizzare verso un “nemico” lo sconcerto, la rabbia e il timore delle società. Non era possibile, come in guerra, come nelle guerre di sempre e come nella guerra recente al terrorismo, agitare il nazionalismo, il “sacro suolo patrio”; non era possibile agitare il razzismo, la “diversità antropologica” degli altri; non era possibile agitare la religione, il maligno carattere d’un popolo attribuibile alla loro fede. La finanza era americana e internazionale, la finanza era impersonale [wasp, islamica, ebraica, cattolica, induista], la finanza era laica.
La crisi finanziaria, che dal 2007 ha totalizzato l’agenda politica delle democrazie occidentali, ha spinto le élite del potere a una “avocazione della decisione politica” per conto delle democrazie. Stabilita una linea Maginot di collocazione delle truppe di difesa e le operazioni di manovra – discutere adesso di quanto “antica” sia questa difesa rispetto la capacità del “nemico”, la finanza, di penetrare le linee, e di come questa “autarchia” abbia prodotto le tessere del pane per il popolo, ci porterebbe lontano e è altro argomento –, le élite del potere politico hanno subordinato le consultazioni popolari a una imperscrutabile e immodificabile “linea di condotta”.
Ciò è particolarmente evidente in Italia, a partire dalla caduta del governo Berlusconi – una manovra delle élite –, e dal susseguirsi di tre governi senza mandato popolare.
Da questo punto di vista siamo un’anomalia di governo, ma non un’eccezione, nel senso che qui da noi i fenomeni di degenerazione della consultazione elettorale e della sua insignificanza sono macroscopici, ma non fuoriescono dal “consesso delle élite”. Più che di una “anticipazione” di fenomeni simili nelle democrazie occidentali, parlerei di una “precipitazione” qui degli stessi fenomeni, di una “condensazione”. Perché questo accada è ascrivibile alla nostra storia, ai caratteri storici della nostra democrazia.
Per dire: non era forse un’anomalia il fattore K, la democrazia bloccata senza alternanza per via della presenza del “più forte partito comunista dell’occidente”? E non fu un’anomalia il “compromesso storico”, quel patto raggiunto solo dopo che Berlinguer dichiarò che probabilmente in Italia raggiungere il 51 per cento dei voti non sarebbe bastato per governare (e come altro si dovrebbe governare)? E non fu un’anomalia Tangentopoli e lo strapotere dei magistrati che mandò a pezzi il sistema dei partiti, quando inchieste giudiziarie di corruzione e finanziamento occulto sono esplose ovunque in occidente senza che questo abbia implicato il crollo dei partiti? E non fu un’anomalia il berlusconismo, un movimento politico nato dal nulla e intorno a un’impresa che in sei mesi raggiunse la maggioranza dei voti elettorali?
Siamo una repubblica “tutelata” – senza incorrere in reato di lesa maestà lo si può dire adesso anche a proposito del Risorgimento e della Resistenza – e non da adesso sotto l’occhiuto sguardo della Bce e della Merkel e delle istituzioni europee e del Fondo monetario internazionale.
Ovviamente, i processi non sono mai lineari come il senso storico poi ci racconta, e succede pure che a volte si aprano le acque e irrompano bisogni e desideri sociali, e nuove classi e nuove istituzioni. E nuovi leader. A volte disastrosamente: Mussolini e il fascismo furono tra queste “rotture”.
Mi viene difficile considerare questo nostro passaggio storico come una frattura, e non piuttosto come un prosieguo di una storicizzata “tutela” – anche se cambiano gli interpreti e gli attori.
Però, chissà.

Nicotera, 3 marzo 2014
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